Quando Benedetto XV scrisse: il nazionalismo è la “peste” della missione
Cento anni della Maximum illud, la lettera missionaria “made in China” del 1919 che voleva rompere l’intreccio perverso tra attività missionarie e politiche di aggressione imperialista delle potenze occidentali
CITTA’ DEL VATICANO. Dopo il Viaggio del Papa in Thailandia e in Giappone, il governo cinese, attraverso il portavoce del Ministero degli Esteri, ha fatto sapere di apprezzare «la cordialità e le buone intenzioni di Papa Francesco che desidera visitare la Cina», e ha confermato che «la Cina è aperta e accoglie con favore» gli scambi tra Pechino e il Vaticano. Papa Francesco, tornando dal viaggio, sul volo Tokyo-Roma aveva ribadito davanti ai giornalisti il suo amore per la Cina e il suo desiderio di recarsi in visita a Pechino.
Non è stato sempre così. Ai tempi di Mao, quando il nunzio vaticano Antonio Riberi fu espulso dalla Repubblica Popolare cinese, la propaganda comunista lo tacciava di essere il «cane segugio dell’imperialismo americano».
Per la Chiesa, la Cina è come un destino. La cosa certo non piace ai circoli impegnati senza requie a sabotare l’iniziale intesa maturata tra Pechino e Santa Sede, a partire dalla delicata questione delle nomine dei vescovi. Eppure già un secolo fa la Chiesa di Roma e il suo Vescovo avevano preso atto – con il loro “fiuto” infallibile – che il cammino presente e futuro del cristianesimo nel mondo passa anche per le vie imprevedibili dell’incontro con la Cina.
Lo attesta in maniera mirabile la Maximum illud, la lettera apostolica di Papa Benedetto XV che porta la data del 30 novembre 1919. Esattamente cento anni fa. La Lettera apostolica è il primo documento sulle missioni emanato da un Papa. Offre ancora orientamenti preziosi per l’opera missionaria nel presente: Papa Francesco ha indetto il “Mese missionario straordinario” celebrato dalla Chiesa universale lo scorso ottobre proprio prendendo le mosse dalla ricorrenza del centenario di pubblicazione di quel documento del suo predecessore Giacomo Della Chiesa. E anche gli studi recenti – come quelli della professoressa Elisa Giunipero, direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica – confermano con nuovi contributi che quella “Magna Charta” delle missioni cattoliche ha origini cinesi.
Già a quel tempo, le travagliate vicende della Cina aiutarono anche la Santa Sede a far maturare un nuovo sguardo sui criteri da seguire nell’opera missionaria, per renderla più conforme alla natura stessa dell’annuncio cristiano.
Nel periodo storico precedente alla pubblicazione della Maximum illud, aveva toccato il suo apice l’intreccio più perverso tra le attività missionarie e le politiche di aggressione imperialista delle potenze occidentali verso l’Impero cinese retto dalla dinastia Qing, nella sua fase terminale. Quando Inghilterra, Stati Uniti e Francia avevano imposto alla Cina gli ignobili «trattati ineguali» che inauguravano la penetrazione coloniale, in tutti e tre i casi a fare da interpreti per i nuovi conquistadores c’erano dei missionari.
Nel 1902, l’accademico di Francia Fernand Brunetière poteva scrivere che: «In Estremo Oriente i missionari sono i migliori informatori e gli agenti più sicuri dei nostri diplomatici». I trattati sempre più umilianti che gli occidentali imponevano ai cinesi a colpi di cannone includevano anche privilegi sempre più estesi per l’attività missionaria.
Già allora, i missionari e gli uomini di Chiesa più avveduti si accorsero di quanto fosse deleteria, per la stessa azione apostolica, la sua connessione servile con gli interessi strategici dei poteri occidentali. «I cinesi», scriverà più tardi Celso Costantini, chiamato a diventare nel 1922 primo delegato pontificio nella Cina post-imperiale, «subirono la formidabile serie di perdite e di umiliazioni per opera delle missioni cristiane, e videro le missioni strettamente connesse con la politica aggressiva delle nazioni estere».
Nei primi lustri del Novecento, la Santa Sede si era mossa nel tentativo di recidere l’intreccio tra attività missionaria e interessi coloniali. Mentre negli ambienti ecclesiali e missionari di allora, diventava incandescente il confronto su come favorire anche in Cina la nascita di una Chiesa locale, slegata da qualsiasi protettorato straniero.
In quegli anni, in prima linea nell’indicare l’urgenza di un cambio di passo c’erano in particolare due missionari lazzaristi, Antonio Cotta e Vincent Lebbe, che operava a Tianjin. Nel 1916 si era arrivati al cosiddetto «incidente di Laoxikai», esploso quando il consolato francese aveva provato a occupare con la forza i terreni intorno alla cattedrale cattolica di Tianjin per includerli nel proprio compound: proprio il missionario belga Lebbe aveva guidato la protesta dei cittadini cinesi contro l’imperialismo francese, con il risultato di essere espulso dal Vicariato apostolico di Tianjin.
Le intuizioni e gli allarmi di Cotta e Lebbe venivano comunque tenuti in considerazione a Roma. Nei loro memoriali, inviati e studiati presso la Congregazione di Propaganda Fide, emergeva chiaramente che i cinesi non avevano bisogno di un «superbattesimo» coincidente con lo stato di sottomissione sine die alle congregazioni religiose straniere. Bastava seguire anche in Cina la via indicata negli Atti degli Apostoli: l’opera missionaria, intesa come invio di persone da terre lontane, doveva essere solo la fase iniziale e provvisoria, come del resto era avvenuto in età apostolica. Poi, la competenza dell’attività missionaria sarebbe dovuta passare alle comunità locali. Ma questo processo era ostacolato proprio dalla percezione della Chiesa come realtà paracoloniale asservita ad interessi di potenze straniere.
Davanti all’emergenza cinese, alcuni Vicari apostolici operanti in Cina sollecitarono un pronunciamento da parte della Santa Sede. Nelle loro intenzioni, tale intervento doveva essere rivolto solo ai vescovi della Cina. Invece, il Papa e i suoi collaboratori scelsero di allargare l’orizzonte, prendendo spunto dal caso cinese per affrontare emergenze diffuse e fornire indicazioni ritenute utili per orientare in ogni luogo la missione universale della Chiesa.
La Maximum illud fu il risultato di questo processo, e in alcuni passaggi riprende parola per parola considerazioni contenute nei memoriali inviati a Roma dal lazzarista Cotta. Il Papa nella Lettera affermava che il nazionalismo può diventare pestis teterrima, «la più triste delle piaghe» per l’annuncio del Vangelo.
Nel documento, il tema missionario appare determinato anzitutto dall’assecondare il dono dello Spirito Santo e non dall’urgenza di arruolare o di arringare militanti. Si ripete che il cristianesimo non è una civiltà terrena da propagare con strategie di conquista, ma una cittadinanza celeste. Riguardo all’asservimento dell’azione missionaria a interessi di egemonia politica, Benedetto XV, con il linguaggio del tempo, fa notare tra le altre cose che «gli uomini, per quanto barbari e selvaggi, capiscono piuttosto bene che cosa cerchi per sé e cosa chieda loro il missionario, e col fiuto riconoscono con grande sagacia (sagacissimeque odorando perspiciunt) se egli desideri qualcos’altro che non sia il loro bene spirituale».
Quando un missionario si adopera per gli interessi del proprio Paese di provenienza, e non ha come unico bene da perseguire la salvezza delle anime – faceva notare il Vescovo di Roma – sorgono inevitabili sospetti tra la popolazione, «indotta a credere che la religione cristiana sia qualcosa che appartiene a una qualche nazione straniera, abbracciando la quale religione uno sembra mettersi sotto la tutela e il potere di un altro Paese e sottrarsi alla legge del proprio». Invece la fede cristiana, «abbracciando tutti gli uomini che adorano Dio in spirito e verità, non è straniera ad alcuna nazione».
Il Papa giudicava come deplorevole la possibilità stessa di vedere all’opera «missionari così dimentichi della propria dignità da pensare più alla loro Patria terrena che a quella celeste», e «preoccupati più del dovuto di dilatarne la potenza e di estenderne anzitutto la gloria. Sarebbe questa – rimarcava Papa Della Chiesa cent’anni fa la più triste piaga dell’apostolato». Benedetto XV rivelava anche il «grande dispiacere» provocato da «quelle riviste missionarie diffuse in questi ultimi anni, che manifestano non tanto il desiderio di dilatare il regno di Dio quanto di allargare l’influenza del proprio Paese».
Già allora, le reazioni più velenose alla Lettera si registrarono all’interno della Chiesa. Parte degli ecclesiastici e dei religiosi occidentali operanti nei territori di missione misero in atto un sabotaggio lamentoso delle linee ispiratrici della Maximum illud. Da Roma erano giunti suggerimenti profetici, che potevano aiutare tutti a riscoprire le autentiche sorgenti di grazia dell’opera apostolica, e venivano accolti con indifferenza calcolata da tanti “addetti ai lavori”, ripiegati nella difesa delle proprie posizioni.
Nel febbraio 2024, la Segreteria di Stato fu costretta ancora a diffondere una nota per ribadire che in Cina «non bisogna esigere indennità per l’uccisione di un missionario, dato che è estraneo allo spirito della Chiesa chiedere dei compensi pecuniari per il sangue dei martiri». Anche le reazioni degli apparati politici e clericali di allora appaiono affini, per ragioni reali e contenuti, alle operazioni di tanti circoli politico-clericali impegnati a tempo pieno a distorcere e occultare i criteri che guidano la Chiesa di Roma nei suoi rapporti con la Cina di oggi.
In un tempo in cui anche sugli scenari geopolitica, ad ogni latitudine, si moltiplicano i circoli, le lobby e gli apparati di potere ansiosi di usare anche le difficoltà e le sofferenze dei cristiani come strumento di propaganda delle rispettive strategie di predominio.