CITTÀ DEL VATICANO. Al Sinodo sull’Amazzonia in corso in Vaticano, dove da oggi i partecipanti sono riuniti nei gruppi di lavoro (Circoli minori), torna a farsi sentire la voce femminile e l’auspicio che sia valorizzato il ruolo femminile già molto attivo tra le comunità indigene della regione.
«Ci troviamo in un kairòs ecclesiale e un segno di questo kairòs è che in questo Sinodo ci sono 40 donne e dietro ognuna di loro ce ne sono tante altre che hanno partecipato al processo di ascolto pre-sinodale», ha rilevato nel corso del briefing quotidiano suor Gloria Liliana Franco Echeverri, presidente della Confederazione Latino-Americana dei Religiosi (Clar).
«La Chiesa ha un volto anche femminile, la Chiesa è madre, è maestra, ma – ha sottolineato la religiosa dell’Ordine della compagnia di Maria Nostra Signora – in questo tempo attuale del mondo e della Chiesa, essa è fondamentalmente sorella e discepola, e per questo come donne abbiamo ancora tutto un cammino da percorrere del quale non siamo le protagoniste perché molte prima di noi lo hanno percorso: santa Chiara di Assisi che ha contribuito a ricostruire la Chiesa, santa Juana che ha scommesso forse tra le prime sull’istruzione delle bambine, suor Maria Ines che guida religiosi del brasile e potremmo menzionarne tante altre, le nostre madri le nostre nonne».
«La Chiesa è in discernimento e il culmine del discernimento – ha detto suor Franco – non sappiamo se sarà in questo tempo o in un altro ma noi continuiamo come fratelli e sorelle, perché questo siamo, facendo sì che questo volto della donna sia sempre più nitido. Non si tratta di potere ma di partire dal servizio, dal dono di sé, dal riconoscimento e la valorizzazione di un ruolo specifico che noi donne credenti abbiamo nella nostre comunità come teologhe, come catechiste, come animatrici, come promotrici della carità dei popoli. Questo – ha detto la religiosa – è momento di grazia, kairos, e Dio continuerà oggi e nel futuro la Chiesa in questo processo di discernimento che continua ad aprire nuove possibilità nuovi cammini e una maggiore sinodalità».
Dopo l’apertura solenne, domenica con una messa presieduta dal Papa a San Pietro, e tre giorni di Congregazioni generali, con interventi liberi sui temi più disparati raccolti nel documento di lavoro, l’Instrumentum laboris, il Sinodo (6-27 ottobre) è entrato oggi in una nuova fase: i 184 partecipanti si sono divisi in «circoli minori» omogenei linguisticamente che approfondiranno il dibattito avviato nell’aula del Sinodo.
I Circuli minores sono dodici e la loro composizione, avvenuta nella giornata di ieri, ha creato qualche malumore, inevitabile al momento di comporre tante sensibilità diverse. Si riuniscono oggi e domani, poi, intervallati a nuove sedute delle congregazioni generali in aula, il 16 e 17, e infine, la sera di giovedì 17 vengono presentate in aula le relazioni di tutti i circoli. Tutta l’ultima settimana, ha spiegato durante il briefing padre Giacomo Costa, sarà dedicata a discutere il progetto di documento finale, che sarà poi votato sabato pomeriggio 26 ottobre, vigilia della messa conclusiva del Papa domenica 27.
Tra gli interventi liberi alla fine della discussione del pomeriggio di mercoledì, sempre a porte chiuse, ha preso la parola anche il Papa che, ha spiegato il prefetto del Dicastero per la Comunicazione Paolo Ruffini, seguendo il «metodo sinodale» ha esposto all’assemblea quali punti emersi nella discussione lo avevano particolarmente colpito e indotto a riflettere.
I vari temi dibattuti sono tornati nel corso del briefing quotidiano, dalle tematiche ecologiche e sociali a quelle più squisitamente ecclesiali. Monsignor Medardo de Jesus Henao Del Río, vicario Apostolico di Mitú, in Colombia, ha raccontato tra l’altro di avere ordinato recentemente un diacono indigeno «nei due riti, romano e indigeno: e voi potete chiedere, ha ordinato uno stregone? No, se prendiamo la cosmogonia degli indigeni, la assumiamo, ma poi offriamo loro il Vangelo». È «essenziale assimilare alcuni valori delle comunità di indigeni, che vanno di pari passo con i valori cristiani: non possiamo sacralizzare o stigmatizzare tutto, ma accettare in seno alla Chiesa. Bisogna tradurre le Sacre scritture nelle loro lingue. E il diaconato, che è servizio, è un ministero che ha molto a che fare con la tradizione indigena».
Monsignor Wilmar Santin, vescovo prelato di Itaituba in Brasile, ha sottolineato, da parte sua, che bisogna «cambiare un po’ la struttura della Chiesa affinché sia più snella», sottolineando che se è tutto «centralizzato nella figura del sacerdote» è anche più difficile annunciare il Vangelo a popolazioni dove, magari, arrivano altre confessioni cristiane. Il presule ha parlato, in risposta alle domande dei giornalisti, delle difficoltà di coesistenza che a volte sorgono con gli evangelicali. «Da circa cinque anni – ha raccontato – qualche Chiesa pentecostale ha iniziato un po’ di più a entrare nel mondo della popolazione Mundurucu e alcuni pastori hanno grande aggressività contro la cultura. Alcuni indios mi hanno riferito che vietavano loro addirittura di parlare la loro lingua perché, dicevano questi pastori, era la lingua dl diavolo. E lo stesso pastore battista nato nel villaggio ha detto che era molto preoccupato perché alcuni altri pastori stavano combattendo la cultura Mundurucu: queste persone non capiscono niente della cultura Mundurucu, ha detto, e ancora meno del vangelo. In alcuni villaggi si creano già due pastori, uno cattolico e uno evangelico, e la comunità, ad esempio, non si riunisce più, rimangono separati: invece che portare il vangelo questo fatto sta provocando divisione».
Monsignor Santin ha poi chiarito: «Stiamo cercando di mettere in pratica quello che il Papa richiede: che gli indigeni diano forma alla Chiesa amazzonica, e uno dei punti di questo volto deve essere ministri propri». «Un sacerdote – ha riferito – ci ha detto durante l’incontro a Manaus che Papa Francesco gli aveva confidato di avere un sogno: di vedere in ogni villaggio un padre, un sacerdote indigeno e avevano parlato circa le difficoltà, e il Papa aveva detto: cominciate con quello che la Chiesa vi permette già, ossia il diaconato permanente».
Lo stesso presule ha replicato ad una domanda sulle notizie che circolano in merito alla pratica dell’infanticidio che sarebbe invalsa in alcune popolazioni: in passato, ha spiegato, i rappresentanti della popolazione Mundurucu «tagliavano testa come trofeo e avevano l’abitudine che se un bambino nasceva “difettoso” gli veniva torto il collo e ucciso immediatamente. Nel caso di un parto gemellare si diceva che un bambino era il bene e uno il male e talvolta uno o entrambi venivano uccisi. A volta veniva ucciso anche il figlio di una ragazza madre, perché si riteneva che un bambino non potesse stare senza padre. Sono cose orripilanti, ma gli aborti che vengono praticati qui nei Paesi “civili”? Ad ogni modo, il lavoro principale delle sorelle infermiere e insegnanti presenti in Amazzonia lentamente è riuscito a far sì che queste pratiche scomparissero del tutto. Ho già visto bambini zoppi, gemelli, tra i Mundurucu non esistono più queste pratiche».