ROMA. Un popolo che si fa scudo delle proprie sofferenze e solitudini con il rigore, l’ordine e l’efficienza, dove i giovani vivono il diluirsi della identità nel titolo di studio e nella posizione sociale e la Chiesa è anestetizzata ad ogni pulsione missionaria. Un popolo che necessita quindi di speranza e dell’annuncio del Vangelo. È il quadro del Giappone che incontrerà Papa Francesco, in viaggio nel Paese del Sol Levante dal 23 al 26 novembre. A delinearlo è don Antonello Iapicca, sacerdote italiano da trent’anni in missione a Takamatsu, che aiuta ad entrare nei gangli di un tessuto sociale minato dall’alto tasso di suicidi e dal fenomeno degli “Hikikomori” e di un apparato ecclesiale fiaccato da ideologie e da un concetto discutibile di inculturazione.
Trentotto anni dopo la visita di Giovanni Paolo II, quale Giappone incontrerà Papa Francesco?
«Papa Francesco, si sa, ha a cuore il Giappone, dove da giovane desiderava recarsi missionario. In me e in tanti fratelli della sparuta comunità cristiana giapponese, questa visita sta ridestando lo stupore e l’ammirazione suscitate più di 150 anni fa in tutto l’Occidente dalla scoperta dell’esistenza di un considerevole nucleo di cristiani in Giappone nonostante la feroce persecuzione durata più di due secoli. È come se l’esperienza di quei cristiani si venisse a saldare con la nostra, attraverso il fuoco della misericordia acceso con zelo appassionato dal Papa. Non è difficile rintracciare oggi, in questo scorcio della storia, le orme luminose dei testimoni e dei martiri che ci hanno preceduto».
Queste esperienze di martirio e persecuzione in che modo si riflettono nella Chiesa di oggi?
«Siamo ancora perseguitati, oggi ancora di più che nei primi secoli come dice sempre Papa Francesco, e non solo in quei frammenti di mondo dove l’odio fanatico dei tagliagole cerca fedeli da uccidere. A Occidente come ad Oriente la persecuzione è violenta quanto subdola e mascherata. In particolare il Giappone è una terra difficile: accanto alle radici religiose più che millenarie, all’isolamento che ha caratterizzato il Paese per molti secoli e ne ha marcato profondamente costumi e mentalità, vi è oggi un’indifferenza religiosa nelle nuove generazioni. La Chiesa sembra come spenta dinnanzi all’urgenza missionaria: i fallimenti ne hanno fiaccato lo zelo, antropologia ed ecclesiologia sono state minate da tante influenze ideologiche che, da una parte hanno soffiato sul fuoco del nazionalismo, dall’altra hanno come paralizzato ogni iniziativa di annuncio del Vangelo».
La Chiesa riesce, ad esempio, a stabilire un dialogo con i giovani? Considerando che il Giappone si distingue per l’alta percentuale di suicidi tra minorenni, anche di 10-12 anni.
«I suicidi sono solo la punta di un iceberg. La società giapponese, esattamente come quella occidentale, è in veloce decomposizione. Anche qui la speranza è il reale bisogno di ogni persona, ed essa coincide con la vittoria di Cristo sulla morte e il peccato. Si tratta soprattutto di una questione antropologica che sorge dalla fede cattolica e che purtroppo in questa fase appare non risolta, camuffata con il problema dell’inculturazione. Dietro alla cultura vi è l’uomo, i bisogni sono gli stessi in ogni luogo, come sono identici i peccati. Ma di questo si parla poco, anzi, tutto è diluito in una sorta di pseudo-ottimismo che vede nella realizzazione dell’inculturazione del Vangelo in Giappone la risoluzione ad ogni difficoltà dell’evangelizzazione. Il risultato è una lenta anestetizzazione delle pulsioni missionarie».
In Thailandia Papa Francesco ha esortato ad «inculturare il Vangelo», L’inculturazione può costituire quindi un problema?
«È diverso. Inculturazione non significa imitazione profana della speranza cristiana. In vari aspetti, la Chiesa in Giappone evidenzia invece una preoccupazione latente, quella di essere accolti, compresi, sintonizzati sulle onde delle religioni e delle culture. Emerge una sorta di complesso, un’ansia di mea culpa per quello che, numericamente, risulta un fallimento. Le riunioni e i seminari sull’inculturazione, gli incontri interreligiosi che a volte si risolvono in festival sincretistici sono come silenziatori applicati allo zelo per l’annuncio del Vangelo. La paura di essere rifiutati tarpa le ali».
Cosa bisognerebbe fare, secondo lei?
«La mia esperienza di quasi trent’anni di missione in Giappone mi fa affermare quanto sia urgente e improcrastinabile rimboccarsi le maniche e insegnare ai giapponesi tutto quello che il Signore ci ha comandato. Al punto di accogliere il rifiuto. Il cuore ferito di questa gente lo conosciamo bene, il loro dolore bussa alla porta delle case di noi sacerdoti e famiglie inviati in missione: lo incontrano i figli tra i banchi di scuola; lo scopriamo negli uffici e nelle botteghe dove, con loro, lavoriamo; negli ospedali dove, con loro, andiamo a curarci; nei centri commerciali dove, con loro, cerchiamo offerte adatte alle nostre povere tasche; agli angoli delle strade dove, con loro, andiamo a gettare la spazzatura, rigorosamente differenziata. Si è fatto rassegnazione, facendo difficile la missione. La sofferenza trova sempre un ripostiglio dove nascondersi; a volte è così forte da riprendersi, prepotentemente, i più deboli, ragazzi o anziani, per gettarli tra le braccia del demone suicida. Bisogna andare nelle scuole, negli uffici, infiltrarsi nella ragnatela delle relazioni sociali. Occorre guardare negli occhi i ragazzi, gli adulti, gli anziani. Solo così si può intuire la realtà che si cela dietro la forma, inaccessibile frontiera che separa l’honne dal tatemae, l’autentico dall’apparente».
L’efficientismo, l’ordine e la misura che rendono il Giappone un modello sociale da imitare sono quindi, a quanto lei lascia intendere, quasi una forma di protezione dalla solitudine e dalla sofferenza…
«Chiusi i sentimenti, le idee e le intuizioni nel rifugio antiatomico del loro intimo, i giapponesi si sentono protetti proprio dall’uniformità stabilita dalle regole che governano le relazioni, dalla famiglia alla società. Misura, ordine ed efficienza sono tamponi adagiati sulla ferita, non guariscono. Lo spettacolo offerto dal Giappone nei giorni successivi il terremoto e lo tsunami devastanti di Fukushima sono la cifra di questo popolo: non vi è catastrofe dalla quale esso non si sia rialzato, con impegno e diligenza quasi sovrumane. Si ricostruiscono case, scuole e fabbriche, si dissodano ancora le povere terre per tornarvi a seminare, ma quel che è distrutto, laggiù, nel cuore, non c’è nessuno per sanarlo. Ordine all’esterno, che chiede un salario altissimo di tempo e impegno alle persone e alle famiglie, ma all’interno, ogni giapponese che non ha conosciuto Cristo è profondamente solo».
Tutto questo che peso ha sulle nuove generazioni? Abbiamo già accennato ai suicidi ma dilaga anche il fenomeno degli Hikikomori, tra gli argomenti di riflessione durante il Sinodo dei giovani del 2018.
«I giovani giapponesi sperimentano la durezza dell’educazione impartita, la cauterizzazione di qualunque sentimento, persino quelli materni e paterni; vivono il diluirsi della propria persona nel titolo di studio, la mansione lavorativa, la posizione sociale, e perdere così identità, carattere, e personalità. Quasi tutti hanno un amico o un parente suicida sotto il peso dell’insostenibile pressione volta al risultato e all’efficienza. In ogni città si possono vedere file di manager e semplici impiegati barcollare zuppi d’alcool sui marciapiedi dei fine settimana, estremi tentativi per togliersi di dosso ansie, frustrazioni e vessazioni. Centinaia di migliaia di ragazzine si vendono ai maschi che desiderano carne fresca, e le studentesse in divisa e minigonna vertiginosa esaltate quali campioni di femminilità. Poi, sì, ci sono gli “hikikomori”, sciami di ragazzi che si eclissano nelle proprie stanze per non uscirvi più, il viso incollato allo schermo del Pc a gettare giovinezza e speranze in un’esistenza imprigionata in tre metri quadri. Sono ovunque nel Paese».
Il quadro è solo negativo?
«No, Dio non ha dimenticato questo popolo. I cristiani in Giappone sono meno di un granello di sabbia su una spiaggia del Pacifico; molti di loro hanno dimenticato l’indirizzo della parrocchia, e ci tornano solo accompagnati dalle pompe funebri. Eppure sotto la cenere arde la brace, un piccolissimo resto scoppiettante di zelo grazie alle famiglie che sono qui in missione che, unite a tante piccole comunità cristiane, testimoniano l’amore che supera ogni barriera. Ho visto e vedo ogni giorno i semi del Vangelo seminati lungo i secoli e in questo tempo dalla predicazione crescere e dare frutti di vita eterna. Ho visto giovani diventare uomini e donne liberi, in grado di lavorare accettando le loro debolezze psicologiche, oppure ragazzi che hanno lasciato le innumerevoli attività parascolastiche che li tenevano impegnati sino a notte separandoli dalla famiglia e dagli affetti per stordirsi poi con alcool e sesso a buon mercato. Ho visto figli smettere di lasciare i propri genitori negli ospizi a causa degli orari di lavoro, rinunciando a carriere e denaro. Molti impiegati hanno avuto il coraggio di mettere in secondo piano il lavoro per ritornare a casa e occuparsi dei propri figli. È tutto merito di Dio: con Lui nella Chiesa, sono risorti e continuano a risorgere i giapponesi che non temono più precarietà e terremoti, debolezze e tsunami».